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Tra i bianchi di Guadalupe

Per me non tutti gli squali sono uguali. Ne esistono centinaia di specie, ma i “piccoletti” non li prendo in considerazione. Sì i gattucci sono carini, ma vuoi mettere uno squalo leuca, un tigre o uno squalo bianco? Alla fine della fiera LO squalo è solo uno: il Grande squalo bianco. Il mio primo esemplare l’ho visto dieci anni fa in Sudafrica a Gansbaai. E’ arrivato da sinistra mentre io scrutavo la superficie dalla barca. Un’emozione pazzesca, ma niente in confronto a quando sono entrato in gabbia e l’ho visto per la prima volta veramente da vicino. Bellissimo.

Il fatto è che se parli di squali bianchi non puoi non pensare a Guadalupe. Questa isoletta messicana si trova a circa 18 ore di navigazione dalle coste della Baja California e ha tutti gli ingredienti per stuzzicarti l’appetito: squali bianchi, visibilità ottima, leoni marini, paesaggio pressoché incontaminato.

Ad Agosto 2015 ho rotto il salvadanaio e mi sono fatto questo regalo. Il viaggio è un po’ impegnativo: sedici ore di volo, due di autobus e, come vi dicevo, diciotto di navigazione. La partenza è da San Diego, California. Siamo una ventina. Austriaci, Tedeschi, Svizzeri e due Italiani: io e consorte. Uno shuttle ci viene a prendere in hotel e dopo una mezz’ora siamo al confine con il Messico. Compiliamo i papiri, risaliamo a bordo e passiamo la dogana. E’ incredibile come nel giro di dieci chilometri il paesaggio cambi completamente. L’autostrada si srotola per la successiva ora e mezza mentre viaggiamo verso sud. Sulla destra le scogliere si buttano nel Pacifico e i guardrail non hanno un aspetto sufficientemente rassicurante. Passiamo anche di fianco ad un piccolo porto dove è ormeggiato il galeone della serie dei Pirati dei Caraibi. L’ormeggio costa molto meno rispetto agli Stati Uniti, ci spiegano. Evidentemente anche a Hollywood stanno attenti al portafoglio.. A poca distanza dal galeone incontriamo i Baja Studios, dove vengono girati pressoché tutti i film a sfondo marino-catastrofico. Titanic è uno di quelli.

Il rischio di appisolarsi è elevatissimo, nonostante la temperatura all’interno del minibus sia adatta alla vita in zone artiche. Quello dell’uso scriteriato dell’aria condizionata negli Stati Uniti è un capitolo che meriterebbe uno studio sociologico approfondito.

Quando ormai si stanno manifestando i primi sintomi di assideramento, arriviamo in un posto che sembra stato catapultato lì da un altro mondo. E’ Ensenada. L’autista mi dice che è una delle zone più ricche del Messico (e si vede), pieno di Università e studenti e, soprattutto, con un tasso di criminalità pari a zero. L’ultima rapina risale a qualche anno prima e in città se ne ricordano ancora tutti. I “bandidos” sono stati presi dalla polizia nel giro di 24 ore. CSI gli fa una pippa alla polizia di Ensenada…

Riesce difficile credere che a distanza di un’ora d’auto si passi da quest’oasi felice a Tijuana, dove gira talmente tanta droga che se inspiri una boccata d’aria per strada rischi l’overdose di coca.

Entriamo al porto. Piccolo, pulito, supersorvegliato. All’ingresso c’è anche un hotel extralusso (anche se visto da fuori non si direbbe). Se avete tremila euro potete pensare di passarci una notte intera (colazione inclusa eh!).

Sbrighiamo un altro po’ di formalità, ma c’è la prima sorpresa ad attenderci. Mentre noi ci imbarchiamo, sta sbarcando Ocean Ramsey.

Per chi si chiedesse chi è, trattasi della fanciulla dalla treccia bionda che si vede spesso in rete a girovagare per gli oceani appesa alle pinne dorsali degli squali bianchi. Una gnocca stratosferica, talmente gnocca che sembra finta (la mia consorte concorda, quindi posso scriverlo).

Saluti di rito e si sale a bordo della Southern Sport, un trentacinque metri comodo, ma ben lontano dallo standard super lusso di alcune imbarcazioni da crociera del Mar Rosso o delle Maldive. Ma a noi, onestamente, poco importa. Siamo lì per gli squali bianchi, non per la TV a led in cabina.

Mollati gli ormeggi, dopo una mezz’ora rischiamo seriamente, ma davvero seriamente, di colare a picco a un miglio dalla costa. Un peschereccio fantasma (almeno lo sembra, visto che procede avanti tutta senza nessuno a governarlo) non ci dà la precedenza e se il nostro comandante non tirasse letteralmente il freno a mano, ci porterebbe via la prua di netto. Ci passa a due metri, interrompendo per un attimo la caciara scatenata da una ventina di subacquei che non vedono l’ora di immergersi.

Ringraziamo tutti i santi del Paradiso nelle quattro lingue parlate a bordo e ci infiliamo tra le onde del Pacifico.

La traversata procede bene, ma più entriamo in acque aperte, più il mare ci fa capire chi comanda. La notte trascorre sulle montagne russe e reggersi in piedi è un’impresa. Percorrere tre metri in linea retta è praticamente impossibile. Si procede a zig zag sbattendo a destra e a sinistra nei corridoi. C’è chi ingoia pastiglie di xamamina come se fossero mentine e chi mastica un Travelgum dopo l’altro. La mattina arriva, accompagnata da condizioni di mare più calmo e dalla vista di Isla Guadalupe che si staglia all’orizzonte. Sono circa le sette del mattino e il cielo è completamente coperto. L’equipaggio però ci tranquillizza: a Guadalupe la nuvola di Fantozzi funziona al contrario. Se ovunque è nuvoloso, sull’isola c’è quasi sempre il sole. Il tempo di attraccare e, miracolosamente, si crea un enorme buco tra le nubi. Ora siamo sotto il sole e il mare, da grigio che era, si trasforma in una sorta di piscina blu.

Si calano le gabbie e si inizia a pasturare. I primi tiburones si manifestano dopo neanche cinque minuti. C’è chi corre a prendere le macchine fotografiche e chi inizia ad infilarsi la muta. Scenderemo a gruppi di quattro per gabbia: un primo gruppo nella gabbia di superficie, un altro in quella di profondità, mantenuta a quota -10m. Il gruppo numero 3, il mio, inizia da quella di superficie. La vestizione è semplice: muta, calzari, cappuccio, maschera e una specie di giberna (comodissima) carica di una ventina di kg. L’aria ci viene fornita dalla barca tramite un sistema hookah (un secondo stadio collegato ad una frusta chilometrica). In sintesi: niente bombole e massima possibilità di movimento. Siccome ve lo starete chiedendo, la risposta è no. La frusta non è mai stata tranciata da un morso di uno squalo bianco e, se mai dovesse succedere, ci sono comunque delle bombole di backup all’interno della gabbia.

Quest’ultima è grande e a pianta quadrata. Volendo c’è spazio a sufficienza per un tavolino, relative sedie e un mazzo di carte per giocare a scopa in quattro.

Fortunatamente le carte non servono perché non abbiamo tempo di annoiarci: un paio di squali si fanno vivi nel giro di pochi minuti. La visibilità non è eccezionale: c’è un po’ di sospensione e la macchina fotografica fa un po’ fatica a mettere a fuoco, complice la lente aggiuntiva grandangolare che mette a dura prova il sistema. Gli squali sono tutti maschi, ma il testosterone non è alle stelle perché sono molto cauti e timidi nell’avvicinarsi alle esche, manovrate dall’equipaggio sulla piattaforma. Ogni tanto verrebbe voglia di togliersi l’erogatore e chiamarli come si fa con il gatto di casa. C’è chi per attirarli più vicino si mettere a battere lo stick della GoPro contro le spesse sbarre della gabbia, chi pesta sul pavimento di acciaio forato e chi, come me, bestemmia tra sé e sé. D’accordo, gli squali sono attirati dal rumore, ma questo è troppo. Sembra di essere in un cantiere della metropolitana. Al posto loro me ne andrei lontano in cerca di un po’ di tranquillità e, infatti, non si avvicinano.

Finalmente il rumore si arresta (che abbiano capito che si stava ottenendo il risultato opposto?) e qualche impavido pesciolino si arrischia a venire più vicino. Che emozione ragazzi. Il dorso è marroncino, illuminato dai raggi solari. Il ventre è bianchissimo e la linea di demarcazione tra le due parti è frastagliata, ma piuttosto netta.

Quando uno squalo bianco vi si avvicina, capite che le storie che vi raccontano sull’occhio nero inespressivo sono delle balle colossali. L’occhio è blu cobalto e la pupilla, ben visibile, vi scruta e vi mantiene a fuoco, mentre il bestione vi passa di fronte. Per una frazione di secondo si entra in contatto con quel bellissimo animale e l’impulso è quello di risalire la scaletta ed uscire dalla gabbia. Questo, però, è vietatissimo. Non c’è verso. Si deve rimanere inscatolati e godersi lo spettacolo attraverso le sbarre. Viceversa la barca rischia di perdere la licenza e voi di essere fustigati in cambusa.

L’immersione dura in media una mezz’ora, ma i minuti volano, specialmente nella gabbia di profondità. Lì si è immersi nel blu più assoluto. Il mio hobby preferito è sporgermi attraverso la fessura per la telecamera e guardare in basso perché è da lì che loro ti tengono d’occhio senza farsi vedere. Un paio di volte ho avuto fortuna e gli ho fatto tana. Dapprima ho notato una macchia scura muoversi, poi l’ho vista farsi più grossa e, alla fine, ho distinto il ventre bianco e il muso conico avvicinarsi a tutta birra e in verticale verso un’esca che penzolava in superficie. Il tutto sarà durato venti secondi, ma sono valsi tutto il viaggio. E’ come vedere un razzo in fase di lancio, solo senza fumo, fiamme e rumore. Una macchina perfetta. Un’emozione straordinaria.

Ogni tanto uno squalo più veloce degli altri, complice il fatto che ogni tanto l’equipaggio si distrae, riesce ad afferrare un’esca. E’ incredibile come quei denti riescano ad affettare la carne. Sembra di vedere una lama calda di un coltello passare attraverso il burro. Eppure, il più delle volte, si avvicinano ad un centimetro dall’esca e poi svoltano. Non si fidano, altro che spazzini del mare e “brainless eating machines”. Fanno più storie loro a mangiare un trancio di pesce che il mio gatto a mangiare i croccantini di una marca diversa dal solito.

I giorni passano veloci, complice il fatto che si è sempre in movimento. Metti la muta, togli la muta, fai lezione, conosci gente nuova, intervista Caio e Sempronio e.. fatti intervistare. Sì, perché a bordo c’è una troupe che

sta girando un film-documentario intitolato Shark Rescue, di cui sentirete presto parlare perché dovremo dar loro una mano a portare a termine il progetto. Sarà un film dedicato alla conservazione degli squali, con immagini catturate un po’ in tutto il mondo ed interviste a personaggi di un certo rilievo (io non sono tra questi). La troupe è composta da Christian Redl (detentore di svariati record di apnea), Wolfgang Fruhwirth (cantante di professione, e ai primi posti nella hit parade austriaca, ma che ha messo la propria notorietà al servizio degli squali) e Peter Schneider, foto-videoperatore subacqueo senza fissa dimora (nel senso che è costantemente in viaggio). Sul suo biglietto da visita alla voce “indirizzo” ha scritto: Pianeta terra. Tre personaggi fantastici, credetemi.

Conosco (e intervisto) anche Mauricio Josè Padilla che quasi tutte le sere arriva sul Carcharodon e sale a bordo per cenare con noi. Il nome non vi dice niente?

Beh, a parte aver girato recentemente una serie di documentari per Discovery, è l’autore del famoso video di Deep Blue (l’enorme femmina di squalo bianco filmata vicino ad una gabbia a Guadalupe) che sta spopolando sul web. Mauricio, oltre ad essere una persona semplicissima e simpaticissima è l’unico autorizzato dal Governo messicano a fare ricerca con gli squali bianchi di Guadalupe. Passa sei mesi all’anno in una casetta sulla terraferma in compagnia di altri due altri ricercatori e di qualche dozzina di squali bianchi, che ormai conosce per nome. Peraltro solo lui è autorizzato ad immergersi fuori gabbia, ma solo a scopi scientifici. Ma di questo vi parlerò un’altra volta.

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